Il processo di decision making è il risultato di processi cognitivi e emozionali, che determinano la selezione di una linea d’azione tra diverse alternative.
Nella vita quotidiana si prendono continuamente decisioni. In alcuni casi, le decisioni sono automatiche, mentre in altri casi prendere una decisione può essere un processo più lungo, impegnativo e complesso.
Il decision making caratterizza alcuni dei più importanti eventi della vita: ad esempio, scegliere con chi sposarsi, quale casa comprare, su quale lavoro investire, se smettere di fumare sono decisioni che devono tenere in considerazione diversi elementi e devono esser valutate in base ad un tempo futuro; invece, se bere un altro bicchiere prima di mettersi in strada, quale pizza prendere in una serata con gli amici, scegliere se scappare da un pericolo richiedono che il processo del decision making sia rapido ed efficace.
La decisione, da parte di un individuo, implica un comportamento volontario e intenzionale che fa seguito a un ragionamento. In genere la presa di decisione è messa in atto per poter risolvere un problema. In termini psicologici tuttavia esiste una certa differenza tra decidere e risolvere un problema. Nel problem solving il nostro atto decisionale è sempre vincolato all’obiettivo che vogliamo raggiungere, mentre nel decision making l’atto di decisione è rappresentato da un ragionamento di scelta dell’alternativa più adeguata all’interno di una serie di opzioni (Pravettoni, Leotta, Russo, 2015).
Quindi in termini formali, il processo decisionale può essere considerato come il risultato di processi mentali (cognitivi ed emozionali), che determinano la selezione di una linea d’azione tra diverse alternative. Ogni decision making produce una scelta finale.
Prendere delle decisioni di solito richiede la valutazione di almeno due opzioni che differiscono rispetto a diverse caratteristiche ed elementi. La selezione di un’opzione a scapito di un’altra richiede che la persona metta in atto una valutazione complessiva delle diverse alternative, utilizzando specifiche modalità di ricerca ed elaborazione delle informazioni e strategie decisionali.
Nella maggior parte dei casi prendere decisioni significa ragionare in condizioni di incertezza: non riusciamo a prevedere con certezza l’esito futuro delle possibili alternative a disposizione, ma nella migliore delle ipotesi riusciamo soltanto a stimare la probabilità di tali esiti.
I ricercatori nei campi della psicologia e dell’economia sono generalmente d’accordo sull’importanza di due fondamentali motivazioni umane, come il desiderio di ridurre l’incertezza e il desiderio di ottenere vantaggio (Bentham, 1948); queste motivazioni sono fondamentali nella presa di decisioni. Contrariamente alle prime teorie, che vedevano il decision making legato alla scelta razionale, oggi è risaputo che le decisioni umane sono basate tanto su motivazioni edoniche ed emotive quanto su motivazioni razionali (Cabanac, 1992).
Il decision making viene studiato da diverse discipline, dalla statistica, alla psicologia all’economia. La ricaduta applicativa di tali studi è di enorme importanza poiché i processi decisionali sono trasversali a diversi e molteplici contesti, tra cui ad esempio le decisioni in ambito medico, politico-economico, legale e magistraturale, organizzativo e aziendale, in contesti di emergenza di diverso tipo, e così via.
Le teorie e i modelli del decision making
Il decision making quindi è strettamente connesso al ragionamento probabilistico. Per “ragionamento probabilistico” si intende un ragionamento inferenziale induttivo che ci permette di stimare la probabilità che un dato evento all’interno di determinate condizioni si possa realizzare.
Riguardo ai modelli teorici nell’ambito della psicologia del decison making si differenziano due approcci: l’approccio normativo e l’approccio descrittivo. L’approccio normativo si focalizza sulla teoria della scelta razionale. Secondo questa teoria, in condizione di incertezza e di rischio, gli individui si rappresentano le opzioni di scelta in termini di utilità attesa. In altre parole, ogni possibile alternativa corrisponde a un possibile stato del mondo conseguibile, che si associa a un corrispondente valore di probabilità che esso effettivamente possa realizzarsi. Secondo Von Neumann e Morgenstern (1944), chi compie una scelta valuta in modo razionale l’utilità corrispondente alla propria scelta e la probabilità che la stessa si realizzi (Pravettoni, Leotta, Russo, 2015). Secondo le teorie normative e della scelta razionale l’essere umano ragiona in termini probabilistici e di utilità attesa e applica in maniera precisa le regole della statistica.
Tuttavia, alcuni autori già negli anni 50 iniziarono a sottolineare che il comportamento reale di scelta degli esseri umani presentava discrepanze rispetto al modello teorico della scelta razionale. Ad esempio secondo Simon (1956) l’essere umano non riesce a ragionare in modo assolutamente razionale e formale, poiché le funzioni mentali deputate alla raccolta e all’elaborazione delle informazioni presentano limiti e specificità intrinseci (ad esempio, memoria a breve termine limitata, attenzione selettiva ecc.) ed esterni inerenti il contesto in cui avviene la presa di decisione (quantità e qualità delle informazioni, limiti di tempo, situazioni di stress, ecc.).
A fronte di questi vincoli, il modello della razionalità limitata prevede che ci si accontenti di prestazioni non ottimali ma soddisfacenti. Lo scarto tra la razionalità limitata e la razionalità olimpica (prevista dalle teorie normative) non è un limite ma un adattamento che ci permette di fronteggiare con mezzi cognitivi limitati, scelte e compiti altrimenti troppo complessi (Pravettoni, Leotta, Russo, 2015).
Si apre in tal senso la via all’approccio descrittivo nell’ambito dei modelli del decision making. Sulla stessa linea gli studi di Kahneman e Tversky (1974;1981) hanno riscontrato che le persone non ragionano proprio in termini statistici e razionali, bensì utilizzerebbero le cosiddette strategie euristiche.
In particolare Kahneman e Tversky hanno studiato i processi di decisione in condizioni di incertezza e di rischio; dai loro esperimenti è emerso che durante i processi decisionali in condizioni di incertezza e rischio vi sono spesso errori sistematici e bias cognitivi che violano gli assunti della teoria della scelta razionale. Tali errori sistematici, agendo in una precisa direzione e in particolari circostanze, sono prevedibili, e approfondendo il funzionamento dei processi cognitivi nella presa di decisione è possibile identificarne le cause.
In letteratura sono state identificate diverse categorie di strategie di presa di decisione. Una prima categoria di strategie “compensatorie”, include ad esempio il modello dei pro e contro, secondo cui l’individuo valuta gli attributi positivi e negativi delle due alternative, e il modello delle differenze, secondo cui l’individuo valuta la differenza tra l’una e l’altra opzione. La seconda categoria di strategie di decision making consiste nei modelli “non compensatori” tale per cui si analizzano i diversi attributi secondo un criterio restrittivo ed eliminatorio: il primo aspetto negativo trovato comporta l’eliminazione dell’intera alternativa. In questa procedura, dunque, le alternative meno gradevoli vengono eliminate gradualmente.
Come già accennato precedentemente, Kahneman e Tversky si sono focalizzati sullo studio delle strategie decisionali attuate in situazioni rischiose. In tali condizioni le scelte sono molto condizionate dal modo con cui gli individui percepiscono, si rappresentano ed elaborano le informazioni che entrano in gioco nel processo di scelta (ad esempio vi sono le distorsioni determinate dalla modalità di rappresentazione dei rischi). La percezione del rischio è un fenomeno molto complesso e nel momento in cui le persone devono valutare i rischi, spesso non dispongono di informazioni complete, non possono fare ricorso a dati statistici né ad altre informazioni obiettive. Possono soltanto ricorrere a informazioni o conoscenze derivanti dalla loro esperienza.
In tal senso sono state identificate le cosiddette euristiche, una serie di regole inferenziali volte a rendere più semplici i compiti cognitivi implicati nella valutazione dei rischi. Sebbene le euristiche siano molto efficienti, implicano estese e sistematiche distorsioni nella presa di decisioni. Le euristiche sono delle scorciatoie cognitive che semplificano la complessità della valutazione della probabilità di un evento e consentono di prendere una decisione in modalità più rapida. Kahneman e Tversky ritengono che l’uomo comune compia errori di ragionamento in quanto fa affidamento su un numero limitato di principi euristici, che hanno il vantaggio pero di ridurre la complessità nella stima della probabilità e di predire valori a operazioni di giudizio più semplici.
Le stime di probabilità di un evento sono effettuate dagli umani sulla base di euristiche che, anche se pratiche e veloci, non garantiscono sempre delle valutazioni ragionevoli. Vi sono diversi tipi di euristiche. Secondo l’euristica della disponibilità le persone valutano le probabilità di un evento giudicando la facilità con cui riescono a ricordarsi i casi in cui si è verificato. Secondo l’ euristica della rappresentatività invece la probabilità di un evento è stimata in funzione del grado di somiglianza con le proprietà essenziali della popolazione cui appartiene. Secondo l’euristica di ancoraggio e aggiustamento, nel processo di stima di probabilità viene utilizzato un naturale punto di partenza o di riferimento come prima approssimazione per la valutazione, cioè un’“àncora”. Questa “àncora” è poi aggiustata per modulare le implicazioni derivanti dall’acquisizione delle informazioni addizionali. Tipicamente l’aggiustamento è approssimativo e impreciso.
Infine, un altro fenomeno implicato nel decision making in contesti di incertezza e rischio è il cosiddetto framing, cioé il modo con cui gli individui si rappresentano i problemi decisionali. Le scelte rischiose, infatti, dipendono dal tipo di frame imposto dalla descrizione delle alternative di scelta. Il frame, o effetto d’incorniciamento, consiste in una rappresentazione mentale delle conseguenze delle alternative, così che tali conseguenze possano essere considerate come guadagni o perdite rispetto a un punto di riferimento. L’adozione di una prospettiva rischiosa, oltre che alle propensioni soggettive al rischio, sembra imputabile al fatto che le alternative (strutturalmente simili) sono incorniciate in modo differente, cosicché la formulazione induce a cambiare il punto di riferimento (Pravettoni, Leotta, Russo, 2015).
Il contesto sociale può rappresentare un fattore che influenza il processo di presa di decisione, poiché gli individui si trovano continuamente a dover prendere delle decisioni essendo immersi in un contesto sociale. Inevitabilmente le pressioni sociali e la cultura possono influenzare il comportamento decisionale, in particolare all’interno di contesti sociali e organizzativi. L’appartenenza al gruppo può influenzare i comportamenti e le decisioni degli individui, al punto che in psicologia sociale si parla di conformismo nei gruppi: l’individuo è spinto a conformarsi alle decisioni del gruppo anche se differenti rispetto al proprio modo di pensare e agire.
Un altro fattore che influisce sul processo di decision making è lo stress emotivo. Ad esempio, una causa di stress è data dalla mancanza di tempo disponibile per prendere una decisione. Secondo la teoria di Janis e Mann (1977) gli individui adottano dei comportamenti differenti a seconda del grado di stress al quale sono sottoposti. Per esempio, se il grado di stress è intenso, l’individuo può attuare un evitamento difensivo, che consiste nell’abbandonare il processo di decisione rimandandolo a un momento successivo, oppure può assumere atteggiamenti e comportamenti ipervigilanti.
L’ipotesi del marcatore somatico
Nell’ambito del decision making vale la pena citare l’ipotesi del marcatore somatico di Damasio (Damasio, 1994). Il marcatore somatico forza l’attenzione sull’esito negativo alla quale può condurre una data opzione di scelta e agisce come un segnale automatico d’allarme che “avvisa” di far attenzione al pericolo che ti attende se scegli l’opzione che conduce a tal esito. Il segnale può far abbandonare immediatamente il corso negativo d’azione e così portare a scegliere fra alternative che lo escludono, protegge da perdite future e in tal modo permette di scegliere entro un numero minore d’alternative. È possibile impiegare l’analisi costi benefici e l’appropriata competenza deduttiva, ma solo dopo che il passo automatizzato ha ridotto drasticamente il numero di opzioni disponibili.
Nel normale processo umano di decisione, i marcatori somatici possono non essere sufficienti, poiché in molti casi avrà luogo un successivo processo di ragionamento e decisione finale. I marcatori rendono più efficiente e preciso, con ogni probabilità, il processo di decision making. (Damasio, 1994).
In breve, i marcatori somatici sono esempi speciali di sentimenti generati a partire dalle emozioni secondarie. Quelle emozioni e sentimenti connessi, tramite l’apprendimento, a previsti esiti futuri di determinati scenari. Quando un marcatore somatico negativo è giustapposto ad un particolare esito futuro, la combinazione funziona come un campanello d’allarme, quando invece interviene un marcatore positivo, esso diviene un segnalatore d’incentivi: qui sta l’essenza dell’ipotesi.
I marcatori somatici, inoltre, possono operare celati e utilizzare un anello “come se”. Essi non deliberano per noi, ma assistono il decision making illuminando alcune opzioni ed eliminandone altre (Damasio, 1994).
In conclusione è evidente che il marcatore somatico nel processo decisionale è ancorato al lato emotivo delle persone. Le emozioni quindi sono un fattore importante di interazione tra le condizioni ambientali e i processi decisionali.